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lundi, 09 février 2009

Nietzsche - Riflessioni sulla scuola

Nietzsche. Riflessioni sulla scuola

 

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/

La cultura “attuale trapassa qui nell’estremo della cultura “adatta al momento: cioè il rozzo afferrare quel che è utile al momento. Nella cultura si vede ormai solo ciò che reca vantaggio con la cultura. La cultura generalizzata trapassa in odio nei confronti della vera cultura. Compito dei popoli non è più la cultura: bensì il lusso, la moda. [...] L’impulso alla massima generalizzazione possibile della cultura ha la sua origine nella totale secolarizzazione, nella subordinazione della cultura in quanto strumento al guadagno, alla felicità terrena rozzamente intesa.[...]

Nietzsche, 1871. Spunti tratti dagli appunti preparatori alle 5 conferenze sulla scuola tenute tra gennaio e marzo


Miei stimati uditori!

L’articolo di oggi verterà Sull’avvenire delle nostre scuole. Cinque sorprendenti conferenze sui problemi dell'educazione tenute da Friedrich Nietzsche (1844-1900) nel 1871.

Sul tema dell’educazione il filosofo prussiano rintraccia due tendenze figlie della modernità: da un lato si assiste alla massima estensione e diffusione della cultura, dall’altro al suo indebolimento e svilimento. Se dunque si allarga la diffusione della cultura entro cerchie più ampie, allo stesso tempo si esige che essa rinunci alle sue più alte e nobili vette per «dedicarsi al servizio di una qualche altra forma di vita». Ora, per mezzo dei moderni istituti di formazione, non è più l’uomo che sceglie di avvicinarsi alla cultura ma, viceversa, è la cultura che viene obbligata ad adattarsi all’uomo. Il risultato sarà che ognuno, in base alla propria natura, verrà formato in modo tale che dalla sua quantità di sapere tragga la massima quantità possibile di felicità. Un esempio di questo allargamento-svilimento della cultura e, al tempo stesso un ambito cui le due tendenze confluiscono, è il giornalismo. Il giornale prende il posto della cultura e anche lo studioso che non ha abbandonato pretese culturali spesso vi si appoggia; è nel giornale che culminano i fermenti culturali del presente ed è il giornalista che ora prende il posto del grande genio e diviene guida. Ma, come sappiamo, il giornale è diretto a un pubblico molto ampio e diversificato sia dal punto di vista sociale che intellettuale; è quindi ancora una volta la cultura che, trovando adesso espressione nelle pagine del giornale, deve di volta in volta cambiare veste ed adattarsi agli uomini e alla loro natura variabile e diversificata.

Nietzsche prosegue la sua analisi parlando del liceo e dei problemi che la modernità ha portato a tale istituzione considerata dal filosofo di grande importanza.

La sua prima considerazione verte sulla lingua tedesca che nel presente è per Nietzsche «scritta e parlata così male e in modo così volgare quanto solo è possibile in un’epoca di tedesco giornalistico». Una causa di ciò sta nel come oggi ci si accosta alla lingua: invece che spingere gli allievi a una severa autoeducazione lingustica, l’insegnante tratta la lingua madre come se fosse una lingua morta. Ma la cultura, invece, inizia quando si è in grado di trattare il “vivente come vivente e, per quanto riguarda la lingua, bisognerebbe insegnarla reprimendo l'interesse storico.

Altro aspetto dell'insegnamento moderno che Nietzsche critica è “l’istituzione educativa del tema. Il giovane liceale, nell’affrontare un tema, si trova a dover esprimere la propria individualità su materie per le quali però il suo pensiero non è ancora maturo. Ecco che, in un certo senso, dovrà dare il voto a opere poetiche o caratterizzare personaggi storici; compiti questi che necessitano di riflessioni che un liceale non è ancora in grado di sviluppare. Detto ciò la situazione è poi aggravata dal ruolo che gioca l’insegnante nel dover giudicare tali temi: egli infatti nel dare un giudizio andrà a criticare proprio gli eccessi di individualità che evincono dal tema dell’alunno, eccessi tuttavia più che giustificabili perché dettati dalla naturale condizione di giovane. Questo atteggiamento porterà a una progressiva mediocrità e a una standardizzazione del pensiero giovanile in quanto al giovane viene sì richiesta originalità, ma l’unica originalità possibile a quell’età viene poi giudicata negativamente e quindi rifiutata. Nel moderno liceo ognuno è considerato in diritto di avere opinioni personali su cose molto serie, mentre la giusta educazione è quella che abitui il giovane a «una stretta obbedienza sotto lo scettro del genio». Questa “obbedienza tuttavia non avviene, e non può avvenire in un contesto come quello moderno poiché lo “scettro del genio, che altro non è che la cultura classica, non viene percepito come qualcosa che vive con noi e, invece che «crescere sul suolo dei nostri apparati educativi» e accompagnare il giovane nella sua educazione, questo “scettro risulta essere un ideale culturale sospeso per l’aria e perciò distante dalla scuola. Il passato dovrebbe dunque congiungersi al presente per il futuro in modo naturale, e siccome per Nietzsche il percorso storico ha forma ciclica, non possiamo stupirci né tantomeno dubitare sulla naturalezza e la giustezza di questa congiunzione tra passato, presente e futuro: tra Tradizione e progresso.

La cultura è per sua natura qualcosa che vive al di sopra dello stato del bisogno umano e della necessità. Le moderne scuole risultano essere invece istituzioni utili al superamento di necessità vitali umane. La cultura non è più studiata nella sua assolutezza, ma relativamente a quello che serve all’uomo. Nei licei non sono più gli studenti che vengono severamente indirizzati verso la cultura, ma viceversa è la cultura che viene asservita agli scopi e ai bisogni della scuola che si configura ora come istituto volto a formare, a seconda del ramo in cui è specializzata, i futuri funzionari, ufficiali, contabili, commercianti, e via dicendo.

L’indipendenza intellettuale che viene lasciata al liceale nell’accostarsi alla cultura classica la si rintraccia “all’ennesima potenza nell' università dove è amplificato “all’ennesima potenza anche il danno che tale indipendenza reca. In un’età in cui «l’uomo è massimamente bisognoso di una mano che lo guid, lo si lascia libero di scegliere se seguire questa o quella lezione e, per quanto riguarda la filosofia, lo si lascia libero di scegliere e di misurare il valore di questo o quel filosofo. Lo stimolo a occuparsi di filosofia in maniera così neutrale non farà altro che bandire la filosofia stessa dall’università. Tuttavia, se un rapporto seppur troppo semplicistico esiste con la filosofia, con l’arte l’università non si rapporta affatto. A questo punto il filosofo prussiano si chiede: vivendo senza filosofia e senza arte che bisogno potrà mai avere il moderno e “indipendente accademico di dedicarsi alla cultura greca e romana? E come si potrà arrivare alla cultura se l’università – che della cultura dovrebbe esserne regno – viene meno all’avvicinamento alla Grecia, all’antica Roma, alla filosofia e all’arte?


Nietzsche conclude la sua trattazione con l’elogio della corporazione studentesca che da lui è vista come valido tentativo di istituzione culturale. La corporazione studentesca aveva infatti capito, forse grazie all’esperienza della guerra e della vita militare, che chiunque voglia accostarsi alla cultura può farlo solo partendo dalla disciplina e dall’obbedienza verso grandi figure-guida. Dotata e portatrice di un vero spirito tedesco, e trovando in Schiller (1759-1805, in foto) una guida, alla corporazione studentesca si spalancarono le porte della filosofia, dell’arte, dell’antichità: della cultura! Tuttavia Schiller fu «troppo precocemente consunto dalla resistenza del mondo ottuso, di cui ora sentiva la mancanza con intima rabbia» e segnò così la fine della corporazione studentesca che perì per colpa delle troppe discordie interne dovute proprio alla mancanza di una nuova guida carismatica.

mercredi, 17 septembre 2008

Citation de Chateaubriand

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mardi, 02 septembre 2008

A. J. Langbehn: le prophète solitaire de la simplicité

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August Julius Langbehn: le prophète solitaire de la simplicité

Hommage à l'Allemand qui aimait Rembrandt à l'occasion du 90ième anniversaire de sa mort

 

Dans les années 90 du siècle passé, la bourgeoisie cultivée allemande, la Bildungsbürgertum, a été saisie par un malaise culturel, qui s'était lentement insinué dans les esprits à partir de la fondation du IIième Reich et avait atteint son point culminant dans l'atmosphère “fin-de-siècle” vers 1900. Dans cette époque de désorientement culturel où l'on recherchait de nouvelles voies, un nouveau livre est paru avec un titre tout aussi prophétique que mystérieux: Rembrandt als Erzieher - Vom einen Deutschen (= Rembrandt comme éducateur. Par un Allemand). L'auteur restait en effet anonyme. Mais son livre deviendra vite l'un des plus gros succès de librairie du siècle. Edité pour la première fois en 1890, il connaîtra 43 éditions rien que dans les trois années suivantes.

 

L'auteur, August Julius Langbehn, est pratiquement tombé dans l'oubli aujourd'hui. Né en 1851 dans le Nord du Slesvig/Schleswig dans la famille d'un vice-recteur de Gymnasium, Langbehn sombra vite dans la détresse matérielle après la mort prématurée de son père, ce qui ne l'empêcha pas, à terme, de s'inscrire dans les universités de Kiel et de Munich dès 1869, où il termina des études de philologie et de science naturelle. Après un long voyage en Italie, il se tourna finalement vers l'archéologie des premiers âges de la Grèce antique. Il termine ces études en 1880 et rédige un mémoire. Pendant et après ses études, qui ont duré dix ans, Langbehn a vécu une existence nomade, instable et très précaire. Mais jamais il n'a exercé de profession parallèle; pendant longtemps, il n'a vécu que de petites publications ou des dons de quelques mécènes comme le peintre Wilhelm Leibl et Hans Thoma.

 

Le livre Rembrandt als Erzieher  est le reflet de la conception que Langbehn se faisait de la vie. En plein milieu d'un siècle scientifique, perclus de positivisme et de modernité, d'un siècle qui voit émerger partout des mégapoles où croît démesurément l'importance de l'économie et du capital, Langbehn voulait annoncer et préfigurer une ère nouvelle placée sous l'enseigne de cet esprit prémoderne que fut l'idéalisme, un esprit qu'il espérait capable de propulser dans l'avenir le meilleur de la culture allemande. En écrivant ce livre, Langbehn était l'un des premiers en Allemagne à affirmer ouvertement, dans un langage clair, ce qu'une grande partie des bourgeois cultivés allemands ressentait confusément. Langbehn écrivait ainsi avec ses propres mots  —et portés par d'autres intentions—  ce qu'avant lui Nietzsche et Paul de Lagarde avaient exprimé dans leurs critiques de la culture européenne: à l'effondrement du système des valeurs qui avait dominé jusque là, il fallait répondre par un retour conscient aux valeurs spécifiques de son propre peuple. Pour Langbehn, outre le retour aux sources de la paysannerie allemande, il fallait aussi s'adonner totalement à l'art. Un art véritable, pensait-il, ne pouvait émerger et s'amplifier qu'au départ de cette force intacte du paysannat allemand, non encore appauvri dans ses instincts. C'est la raison pour laquelle les attaques critiques de Langbehn contre la culture dominante concernaient en première instance le scientisme. Par haine contre toutes les formes d'intellectualisme, il avait déchiré son propre diplôme de doctorat et l'avait renvoyé chez le doyen de l'université de Munich, afin d'être rayé de la liste des diplômés. A une culture trop savante et trop compilatoire, il opposait la simplicité comme “médicament pour les maux du présent”.

 

Bien que Langbehn se soit considéré comme un aristocrate, il était un défenseur véhément de la “communauté populaire” (Volksgemeinschaft). Très tôt, il souleva la question sociale et voulut dépasser les clivages entre classes. Peu sensible aux contradictions, il réclamait l'avènement d'un Ständestaat  et un retour de l'aristocratie au pouvoir, de façon “à ce que chacun puisse conserver sa dignité à sa place et faire valoir sa personnalité”, et “se soumettre volontairement à ceux qui sont au-dessus de lui”.

 

Le catholicisme d'un éternel enfant

 

A juste titre, on a reproché à Langbehn d'avoir produit un mauvais livre à l'écriture trop pathétique, un livre illisible véhiculant dans ses idées beaucoup trop de contradictions: une “rhapsodie d'irrationalisme” (Fritz Stern). D'autres en revanche le nommaient un “visionnaire”, un “homme à la quête de Dieu” ou un “héraut dans le désert”. C'est un fait: pendant toute sa vie, Langbehn a cherché. Issu d'un foyer au protestantisme strict, il se convertit en 1900 au catholicisme, dans l'espoir d'y trouver l'“holicité originelle perdue”. A ce propos, il a dit: “J'ai toujours été enfant et c'est en tant qu'enfant que je me sens attiré par la nature maternelle de l'église catholique”. C'est justement parce que le nationalisme et l'idée grande-allemande chez Langbehn ont pris ultérieurement des formes plus catholiques et que sa critique de la culture dominante s'en ressentait, que les nationaux-socialistes ont pris leurs distances par rapport à son œuvre. Son ouvrage principal, Rembrandt als Erzieher, a encore connu une édition en 1943  —sans doute parce qu'il avait des connotations antisémites—  mais depuis longtemps déjà la diffusion de ses ouvrages ne recevait plus aucun soutien.

 

Mais c'est essentiellement dans le mouvement de jeunesse que l'influence de Langbehn a duré le plus longtemps sans fléchir. Le fondateur du mouvement Wandervogel, Karl Fischer, le pédagogue et réformateur Ludwig Gurlitt, de même que Hans Blüher, étaient des disciples de Langbehn. Après la mort de Langbehn lors de son voyage à Rosenheim en 1907, il fut, selon ses vœux, enterré dans le village de Puch, près de Fürstenfeldbruck, sous un tilleul qui avait servi de toit à Sainte-Edigna au moyen-âge. Les garçons et les filles du mouvement de jeunesse ont fait de cette tombe un lieu de pélérinage. Ils voulaient honorer le “Rembrandtdeutscher” et se souvenir de lui.

 

Frank LISSON.

(texte paru dans Junge Freiheit, n°18/1997; trad. franç.: Robert Steuckers).